La
storia del cammino umano verso il sapere è piena di vie di ricerca cancellate, di
sentieri della conoscenza interrotti.
Quante
ipotesi, quante "strade di ricerca" e di conoscenza, quante
"parole" dell'umanità, sono state "silenziate"
nella storia, a volte con violenza. In ogni caso con superbia. Con quella
tipica "hybris" umana, che
faceva temere e tremare, già ai primordi della storia delle civiltà.
Una
forma di "totalitarismo" della conoscenza è riuscita spesso ad
imporsi, per ragioni non sempre chiare e con metodiche diverse. Attraverso
"procedure di controllo e di
esclusione", spesso mascherate anche da "volontà di verità",
come quelle descritte da Michel Foucault nel
prezioso L'ordine del discorso. Quelle
procedure di esclusione e quella interruzione di sentieri della conoscenza
hanno riguardato i campi più diversi della cultura umana.
Qui
vogliamo denunciare ciò che è stato perso, soprattutto a partire dall'età
moderna, (si potrebbe anche dire: a partire da Kant) quando i racconti dei miti antichi e le grandi storie delle tradizioni spirituali e religiose dell'umanità sono
state confinate nell'area insidiosa della non conoscenza.
Da un
certo momento in poi, siamo tutti apparsi impegnati, più che a proseguire il
cammino, impervio e spesso imprevedibile e inaspettato, della conoscenza, a
realizzare un'accurata e presuntuosa "differenziata", tra idee e conoscenze umane da
mantenere, e altre da trasformare in rifiuti e scarti.
Come
mai ci è accaduto questo? Perché? Perché ci succede anche
oggi, quando ci consideriamo super-evoluti e aperti intellettualmente?
Che
cosa ci ha spinto a identificare la conoscenza in modo
esclusivo con la conoscenza scientifica
quantitativa?
E se
avessimo, in questo modo, escluso e dichiarati privi di senso ambiti fondamentali dell'esperienza umana? E se,
con la pretesa di classificare e definire in anticipo
quali ambiti siano degni di conoscenza, avessimo perso il contatto con il
"mondo della vita", come scriveva Husserl?
È un atteggiamento semplicistico immaginare lo sviluppo
della conoscenza come un "edificio",
in cui si tratta di sovrapporre un piano superiore e successivo, a uno
precedente. È una idea semplicistica della conoscenza anche immaginarla come
una "città" in cui si demoliscono
periodicamente edifici, e "vecchi" quartieri, per sostituirli con
costruzioni nuove e moderne. La conoscenza è invece pensabile come un "reticolo", in cui le connessioni si espandono, si esplicitano e si moltiplicano in forme sempre diverse, invece di ridursi, e dove, come in natura,
nulla si crea e nulla si distrugge.
Siamo
troppo condizionati da modelli interpretativi che non hanno fondamento nella
realtà della storia delle culture, come quello secondo cui il pensiero umano è
passato, a un certo momento, come attraverso un salto, dal "mito" al "logos",
come si passa dall'infanzia alla maturità, dimenticando che, in realtà, anche
nelle varie età della nostra vita individuale, quello che eravamo
ci accompagna sempre, e rende possibile ciò che siamo
ora. In effetti, esistono evidenti forme di razionalità nei miti più
antichi e arcaici, così come sussistono "mitologhemi"
anche nelle teorie "scientifiche" più evolute e recenti.
Sarebbe
necessario perciò non perdere la memoria, e addestrarsi invece all'uso dei
molteplici "linguaggi" e delle
diverse "lenti" che l'intuito umano
ha creato, per riuscire a pensare e comprendere in modo più ampio possibile i
vari aspetti della vita umana e del
mondo.
I
racconti dei miti, come le storie delle grandi tradizioni religiose dell'umanità,
non sono solo "favole" o solo "culto", e neppure solo
"regole etiche". Esse sono anche specifiche
modalità di conoscenza, tentativi dell'umanità elaborati con gli
strumenti disponibili nelle varie epoche per riuscire a comprendere
e spiegare il mondo e la vita. Esse rivelano ciò che gli esseri
umani hanno in comune. Ci ricordano da dove
viene quello che crediamo di vedere e di sentire,
quando diamo un nome o associamo un'immagine alle nostre esperienze umane. Rivelano, scriveva J. Campbell, la nostra
"ricerca", attraverso i secoli, della verità,
del senso e del significato.
Perciò sono patrimoni e risorse insostituibili per la vita. Rivelano aspetti del mondo e della realtà non altrimenti
percepibili.
Perciò
è il caso di non legittimare la nostra presunzione di aver ormai fatto i conti
una volta per tutte, con la questione relativa a: "che cosa significa
conoscere".
Occorrebbe
riconoscere invece, come diceva Rilke, che
"le cose sono ben lontane dall'essere tutte tangibili e dicibili [con le
attuali categorie dominanti] come ci vorrebbero far credere; la maggior parte
degli avvenimenti è inesprimibile e avviene in uno spazio in cui nessuna parola
ha mai messo i piedi".
Occorre
liberarci dalla nostra attuale presunzione secondo cui "conoscere", "ricerca",
"scienza", sono, in fondo, come "un
album da colorare, in cui blocchi differenti
di paesaggio vanno riempiti, uno per uno, con colori opportunamente numerati"
e determinati in anticipo (Peter Brown).
Roberto
Calasso fa notare che "nell'espandere l'area del noto, la conoscenza scientifica espande anche quella
dell'ignoto". E dunque quando noi, figli dell'era "scientifica",
ci confrontiamo con i racconti dei miti e con le storie delle grandi tradizioni
religiose dell'umanità, "non si tratta di mettere a confronto il nostro noto con il loro
ignoto, il che non può avvenire se non con un certo senso di sufficienza. Si tratta di mettere a confronto il loro ignoto con il nostro
ignoto, come accostando due infiniti. E si sa che, quando si passa
al transfinito, spesso avvengono cose che discordano dal buon senso". (R.
Calasso, Il cacciatore celeste, Adelphi).
Ciò
che serve oggi è espandere l'area
della consapevolezza e della coscienza, non ridurla.
Serve non cancellare ma imparare le diverse "lingue"
- i miti, le storie religiose, ma anche la poesia, la musica, l'arte, sono
alcune di quelle "lingue" - per conoscere e parlare del mondo della
vita, in modo più ampio e globale.
Oggi
è il caso di chiederci: che cosa, e quanto, ha perso l'umanità, quanto abbiamo
perso noi, con quelle esclusioni e quei silenziamenti?
E se
derivasse anche da queste esclusioni
la nostra profonda, indecifrabile crisi attuale, che,
riconosciamolo, non è essenzialmente economica?
Se la
nostra crisi, che pare investire ogni cosa, dipendesse proprio dal fatto di
esserci rinchiusi in orizzonti cognitivi troppo
ristretti e angusti?
Se
questa crisi fosse il prodotto di un'epistemologia
"incartata"? Se la nostra, fosse anche una crisi di "metodo"?
E se,
in tal modo, ci sfuggisse l'essenziale o
almeno qualcosa di importante?
"Vi
sono momenti, nella vita, ha scritto Michel Foucault, in cui la questione di sapere se si può
pensare e vedere in modo diverso da quello in cui si pensa e si vede, è indispensabile per continuare
a guardare o a riflettere". Il nostro, forse, è uno di quei
momenti, in cui servirebbe recuperare tutte le risorse
importanti della nostra storia comune, tutta quella molteplicità
di memorie, di saperi e di "sguardi", che hanno
contribuito a produrre i dettagli comuni ed essenziali della nostra identità, e potrebbero proiettarci verso nuovi orizzonti di senso.
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