Il fallimento e lo scacco sono esperienze di fronte alle
quali gli esseri umani reagiscono sempre in modo scomposto. E tuttavia, occorre
onestamente prendere atto che i fallimenti costituiscono la "costante" più evidente e innegabile di ogni narrazione della storia, sia quella degli
individui, che quella delle comunità o dei popoli. Una costante talmente
"ingombrante" da mettere in crisi tutti i tentativi, finora
intrapresi dal pensiero occidentale, di elaborare trionfanti filosofie della
storia e disegni organici dello sviluppo delle civiltà.
Se poi proviamo ad allargare un po' lo sguardo, ci
accorgeremo che, al di là della
vicenda umana, anche tutta la storia del cosmo
e quella della natura raccontano di
una trama della vita costituita da una danza
continua di fallimenti e di rinascite, di inverni e di primavere, di semi
marciti e di boccioli, di vortici di buchi neri e di supernove. E noteremo pure
che in quella danza paradossale, la danza della vita, diversamente da ciò che succede nel gioco degli
scacchi, il gioco continua sempre, anche
dopo lo scacco matto (Asimov).
Ma nonostante tutto, sembra che donne e uomini non
riescano affatto a convivere con i
propri e gli altrui fallimenti, e restino sempre devastati, nella mente e
nell'anima, ogni volta che ne hanno il benché minimo sentore.
Forse una ragione di questo comportamento sta nel fatto che i fallimenti, quelli personali,
quelli umani, quelli etici, quelli politici, quelli economici, quelli culturali
o ideali, sono un po' come morire:
anche per quanto riguarda la morte, infatti, tutti i nostri sforzi sembrano
rivolti o a negarla o a nasconderla o a difendersi da essa, con tutti i mezzi
possibili, anche quando questi ultimi diventano risibili o addirittura
aggressivi e violenti.
Con il fallimento o lo scacco avviene qualcosa di
simile. Non lo riconosciamo o non lo accettiamo, quando riguarda noi stessi; non lo tolleriamo, in nessun modo,
appena sembra solo sfiorare gli altri. Così come non riusciamo a metterlo in conto, quando si
tratta di persone care, o di gente che stimiamo.
E se, invece, la risposta
più ragionevole, di fronte ai fallimenti, fosse la capacità di essere compassionevoli?
Innanzitutto con se stessi, perché qualunque percorso di vita
implica la possibilità di
commettere degli errori e di fallire: si tratta allora di accettare questi
limiti, pur senza smettere di "provare" a superarli. Ma,
compassionevoli, anche con gli altri:
perché
compassione è, soprattutto,
imparare a perdonare chi ci circonda e ad accettarne gli errori. Compassione,
però, non è pietà,
ma un modo di sentirsi in sintonia con
l'intero universo vivente. Essere compassionevoli implica soprattutto la
capacità di trascendersi; e comporta lo sforzo di
"espandersi", per uscire
dai confini dell'ego, per liberarsi
e per identificarsi con gli altri e
con l'intera rete della vita. Fino ad acquisire una nuova coscienza dell'interconnessione, che renda capaci di
agire, non secondo una logica di violenza, di potenza e di "dominio"(potere-su),
ma di concerto con gli altri, in una logica di "potere-con" (Joanna Macy).
La compassione infatti è radicata nella consapevolezza che tutto ciò che esiste è degno di esistere, tutto ciò che vive è degno di
vivere. Perciò dispone ad accogliere e ad aver cura di tutto ciò che vive, anche se appare svuotato di essere. Ebbene, si
può
abbracciare ciò che sembra
un nero vortice svuotato di essere, e vederlo, al pari di un "vuoto quantico", come un vasto
oceano di energia gravida di possibilità? È impossibile? È troppo per noi? Sarebbe, questo, solo un
atteggiamento "dolciastro" o un "idiota" sentimentalismo spiritualistico? Oppure
potrebbe configurarsi come una possibile
rivoluzione culturale, una rivoluzione dello sguardo, un'altra "via"
non ancora sperimentata, una strada che molte, sagge, tradizioni mistiche e
spirituali hanno più volte,
in passato, invitato a percorrere?
Forse è proprio vero che "la compassione è la maggiore fonte di energia
esistente. Oggi che il mondo è diventato un villaggio globale, abbiamo bisogno della
compassione ancora più̀ di
prima, non perché́ vogliamo
essere altruisti, non per ragioni filosofiche o teologiche, ma perché́ vogliamo sopravvivere (M.
Fox).
Nessun commento:
Posta un commento