Chissà
se alcuni di voi hanno mai fatto la mia stessa esperienza. Certo non in Italia.
Perché i limiti e la configurazione del nostro paesaggio non ne
offrirebbe l'occasione. A me è capitato, una volta, in Brasile. In
un'area non distante dal centro geodesico
dell'America del Sud. Quando mi sono trovato, all'improvviso, davanti a una
pianura sconfinata. Senza montagne,
né colline, né foreste, né
costruzioni di sorta che potessero costituire un ostacolo per lo sguardo. Era
una visione dove l'occhio si perdeva,
era "libero" di perdersi, senza nessun limite all'orizzonte, direi
quasi senza nessun orizzonte. C'era solo "qualcosa", come due piani
indefiniti, il cielo e la terra, che, paralleli, senza incontrarsi mai, sembravano quasi correre verso qualche punto
dove fosse possibile lambirsi e baciarsi, per qualche attimo soltanto.
Per me
era nuovo, suggestivo e bello, lasciare
lo sguardo libero di vagare, senza ostacoli e predeterminazioni, in
quell'illimitato, in quell'infinito. Un'esperienza che mi ha colpito molto e...
segnato!
Sembrava
che mi fosse donata la possibilità
di fare una sorta di esperienza dell'infinito. E non tanto concettualmente, ma attraverso qualcosa di molto
"povero", feriale e terreno, come una semplice, sconfinata, spianata d'erba! Era come scoprire un
nuovo, e necessario, presupposto per
l'esperienza della conoscenza in generale. Ero indotto e, quasi, costretto a un inedito approccio alla realtà, alle cose, all'esistenza.
Pensavo a tutte quelle volte in cui la tendenza - che pure appare così
"naturale" - a concentrare
l'attenzione sui "dettagli" che occupano il nostro orizzonte più
vicino, ci impedisce la visione di altri
"dettagli", meno evidenti ma forse
decisivi. Mi sembrava, così, di mettere a nudo il limite di ogni frettolosa pretesa umana di
costringere, realtà ed esperienze, in narrazioni ben
congegnate, dove la ricerca di
"coerenza", nella narrazione, declassa
a "scarti" i molti e diversi aspetti dell'esperienza, così
come le cose e le persone, con un evidente "spreco",
inaccettabile, di intelligenza, di esperienze, di possibilità,
di prospettive! Mi sembrava che la diffusa esigenza di forzare sotto "titoli"
o definizioni precise, il rincorrersi di fatti e vicende umane, fosse il modo
peggiore di conoscere e rappresentare la vita.
E se,
accogliendo l'infinità come orizzonte possibile della
vita umana, difronte alla sconfinata varietà e mutevolezza di toni, colori e
prospettive dell'esperienza, tentassimo, noi, di rincorrere, a nostra volta, senza pretese, la realtà
nelle sue sfuggevoli diramazioni e trasformazioni,
accontentandoci di costruire solo brevi e provvisori "resoconti", invece di lasciarci ossessionare dalla
presunzione di produrre “racconti"
ampi e ordinati?
La mania
del “filo” del racconto! La mania della coerenza nel raccontare storie: imponendo, a se stessi,
di ordinare, sempre, i frammenti e i
dettagli, delle tante “storie", in una organica, grande
"storia", producendo, però, in tal modo, sempre più, rifiuti
e "scarti"!
Ma
esiste un'unica storia raccontabile o non, invece, solo, innumerevoli storie,
come gli infiniti e non riducibili volti umani? Abbiamo proprio bisogno di una "trama" chiara, di imprigionare, sempre, le vite e le storie in maglie strette e unificanti?
Non
potremmo invece accontentarci solo di “accogliere”, e praticare il gioco del "tradurre" le
storie nel linguaggio delle altre, pure se questo è
sempre un po' anche un "tradirle"?
Ma non è solo in questo modo che la "traduzione" diventa
anche possibilità di "tradizione"? Non
sarebbe bello, perciò, imparare a rispettare ogni singolo
"resoconto" e tutti i “piccoli racconti” della vita, pure quando talora non sembrano avere una trama chiara, senza
imporre loro "titoli", ma "contemplando"
semplicemente il loro variegato, ininterrotto e mai completamente afferrabile "danzare", in cui, pare,
prenda corpo e si riveli, a noi umani, una qualche forma d'infinito?