No, non mi riferisco agli spassosi "cinguettii"
degli innamorati, né ai "nonsense" del
linguaggio degli amanti, e neppure a quell'atteggiamento, un po' da ebete, che assumono
le nuove "prede" del dio Eros. No! Alludo piuttosto a un fenomeno
comunemente osservabile, soprattutto, ma non solo, nelle prime fasi di molte relazioni amorose.
Infatti non vi sembra paradossale che alla ricerca, talora
ansiosa, dell'oggetto d'amore, al desiderio di "quella" persona,
sentita come perfettamente complementare a sé,
si accompagni, una volta che "quella" è entrata nella nostra vita, un
ossessivo impegno per renderla...diversa
da quella che è? In altre parole,
mentre è evidente che non ci saremmo “incontrati” proprio con quella tale
persona, se non avesse avuto qualcosa che noi non abbiamo, se non ci
completasse in un certo modo, invece, poi, si fa di tutto perché niente la renda diversa da noi stessi, perché
ci assomigli in tutto,
magari anche nel vestire oltre che nei gusti.
Con due rischi. Da un lato, quello di perderla, a meno che
lei non accetti di essere annullata
nella sua singolarità, - che tanto ci aveva attratti! - per conformarsi a noi
stessi. O, dall'altro, quello di trasformare la relazione in un vuoto e noioso rapporto con la
"fotocopia" di se stessi! Non è "comico" tutto ciò?
A dire il vero sembra che questa dimensione "comica", si insinui in tutti i rapporti
d'amore, da quelli più “naturali” a quelli più nobili e spirituali. Un fenomeno buffo, questo, che spesso
si accompagna all’identificazione dell’altro con l’idea, o l’ideale, che abbiamo di lui. Magari
con lo scopo dichiarato di fare il suo
"bene"!
E’ proprio vero che, a molti,
sembra difficile pensare che amare possa essere soprattutto promuovere e godere della diversità
dell'altro! Sembra
difficile vivere l'amore, ogni forma di amore, come un ostinato tentativo di raggiungere l'"essere dell'altro"(Lacan),
per farlo
esistere insieme a noi così com'è.
Ma perché accade tutto questo? Sarà per la tendenza a eliminare,
il conflitto, in qualunque forma, dalle relazioni? Sarà per la paura del conflitto? Che spinge a voler ridurre
tutto a uno. Dimenticando che l'amore, qualunque
amore, nasce da una disgiunzione, da un "due",
irriducibile!
Magari sarà la persistenza di una qualche
idea archetipica del carattere originario dell'Uno, che non rende possibile
pensare una relazione se non come tappa
verso la fusione! Deve trattarsi, allora, di una tendenza molto potente se
anche i cristiani che da due millenni proclamano un Dio-Amore, che, in se stesso,
è relazione, diversità, è complessità, è un Tre mai fuso, non riescono a pensare, ad accettare e ad amare, insieme, l'unità
e la pluralità, l'identità e la differenza: una
"reale" e indelebile diversità! Ragione per cui, anche per
loro, amare appare, troppo spesso, non
primariamente accogliere, "ospitare" l'altro, nella sua
alterità, ma "fare" qualcosa
per cambiare l'altro, per rendere
l'altro simile a sé.
Tutto ciò sembra veramente buffo. Che
sia il caso di ripensare, oggi, anche
l'amore? Cominciando dal considerarne la fragile temporalità? E dal vederlo non come qualcosa che si "ha", ma
solo come un cammino, mai
garantito, in cui non si può entrare senza liberarsi da ogni idea preconfezionata dell'altro e senza la sincera
disponibilità ad apprendere dall'altro? E se la valenza universale - e ontologica - dell'amore
consistesse proprio nel fatto che, amando, si impara che è possibile fare
esperienza della verità del mondo a partire dalla differenza e non solo dall'identità (Badiou)?
E se questo tipo di amore fosse anche un criterio per
immaginare la convivenza umana in un mondo pluralistico e decentrato?