Come è strano, a volte, il nostro rapporto con alcuni libri,
soprattutto quelli che abbiamo amato o che amiamo! Sembra quasi che spesso quei
libri si comportino come scomodi testimoni o come petulanti questuanti! O come certe
persone, magari conosciute tanto tempo prima ma dimenticate, che quando ti incontrano
cercano insistentemente di farsi riconoscere. O come certi rimpianti che non cessano di occuparti la coscienza. O come un amante trascurato, e ostinato,
che nei modi più imprevedibili, sta lì a ripeterti: “io sono qui e aspetto!”; a
cui magari segue un “dobbiamo vederci
adesso…ho qualcosa da dirti!”
Chissà se capita anche a voi
quello che è capitato a me. Mi rivolgo soprattutto agli amanti della lettura.
Mi trovavo a casa di un’amica e guardavo distrattamente i libri messi in fila sui
suoi scaffali. A un certo punto ho notato un libro di Gregory e Mary Catherine Bateson, un vecchio libro pubblicato
nella elegante collana Biblioteca di
Adelphi. Un libro che anch’io avevo acquistato diversi anni prima. E che
avevo in mente di leggere quanto prima. Anche perché era considerato una specie
di testamento dell’autore di “Mente e natura” e di “Verso un’ecologia della mente”. Un
autore che io considero uno dei maestri del novecento. Un raro maestro interessato più che a comunicare nozioni e
insegnamenti ad educare lo sguardo verso il mondo, a spingere a sperimentare
nuovi paradigmi epistemologici.
Un libro che però, come capita
talvolta, per ignoti motivi, non avevo più preso tra le mani. Ebbene la vista di
quel libro, proprio quel libro, lì dove non avrei neppure pensato di trovarlo,
mi ha provocato quasi un sussulto, mi ha fatto sentire “scoperto”, quasi in
colpa, mi ha come posto davanti un compito lasciato incompiuto,
mi ha fatto sentire una specie di ansia riparatrice, una urgente spinta a
riprenderlo in mano. Quasi dovessi riappropriarmi di chissà quali conoscenze o
emozioni!
E in realtà qualcosa da dirmi ce l’aveva, quel libro scritto più di trent’anni
fa. Qualcosa da dirci oggi, direi. Mentre ci aggrovigliamo in
crisi globali, non solo economiche e finanziarie. Mentre ci sembra di sperimentare
il cancellarsi di orizzonti. Mentre ci chiediamo se esistono ancora ragioni del vivere comune. Mentre
abbiamo a che fare con il venir meno del senso
della politica. Mentre tocchiamo con mano l’incapacità di capi politici,
piccoli capetti nostrani ma anche purtroppo statisti internazionali, di proporre
“visioni” condivisibili. Mentre classi dirigenti, intellettuali,
autorità, educatori, genitori, esperti, ecc. appaiono sempre più muti e inadatti alle sfide dei tempi. Ebbene appena arrivato a casa, ho aperto quel
libro, mi sono imbattuto nel saggio “A
cosa serve una metafora”, e mi sono soffermato a meditare una pagina
illuminante, una pagina che sembra individuare qualcosa che oggi ci
manca, qualcosa da cui occorrerebbe assolutamente ricominciare a pensare.
In quella pagina si parla del
fatto che la maggior parte degli esseri umani nel corso della storia hanno
sempre disposto di una struttura, una
vasta metafora, non importa di quale natura, che collegava la loro vita
individuale alla complessa regolarità del mondo in cui vivevano. Una struttura “che
consentiva alla gente comune di pensare a livelli
di complessità integrata altrimenti impossibili”. La loro “verità”, la
verità su cui si reggeva la loro vita era la verità dell’integrazione.
E oggi invece? Oggi, proprio quando
la complessità attraversa e impregna tutto il nostro vivere globalizzato, come ce la caviamo? “Oggi, al contrario,
abbiamo motivi di preoccuparci, perché possiamo certo far imparare ai nostri
figli un lungo elenco di fatti
concernenti il mondo, ma poi ci accorgiamo che essi non sanno come metterli insieme
in un’unica visione unificata: manca la “struttura che connette”.
(Gregory Bateson e Mary Catherine Bateson, Dove
gli angeli esitano, Adelphi). E non credo che manchi solo ai nostri figli!