Il caso dello scandalo dello sport scoppiato in
Italia recentemente (tra tanti altri!) può essere l’occasione per provare ad allargare la riflessione – al di là dei
problemi concreti e specifici che quella vicenda pone - su una questione
più generale di quella sportiva e
più rilevante per ognuno. La domanda da porsi potrebbe essere: quale
senso riusciamo ancora ad attribuire a una esperienza umana, universale, come quella del “gioco”?
Poiché, se anche il gioco è
diventato soltanto un “affare”
(piccolo o grande, non importa!), forse
rischiamo di perdere una dimensione essenziale dell’esperienza
umana. Se non sappiamo neppure più giocare, se il giocare perde le modalità
con le quali è apparso, come
esperienza antropologica originaria, esclusiva degli esseri umani (infatti
sembra che, di tutte le specie animali, soltanto tra gli umani, la capacità di
giocare continui durante tutta l’età adulta), e se questa perdita fosse generalizzata, allora forse qualcosa di irreparabile potrebbe accadere alla
nostra condizione umana. E al nostro
futuro di umani.
Certo, questa, sembra una storia
antica, ma è pur vero che il processo
degenerativo del gioco e la perdita del suo senso originario appaiono più di
casa nella nostra società del profitto
e della signoria del mercato (il vero
pensiero unico dei nostri tempi, l’unica
religione universale che diffonde le sue lusinghe e i suoi credi anche nei “santuari” delle
religioni storiche!).
Dobbiamo prendere atto che non sappiamo più giocare? Abbiamo perso
la naturale attitudine al gioco, la
giocosità? È vero, un’affermazione del genere sembrerebbe fuori luogo
in un mondo dove il gioco e il divertimento sono proposti continuamente
come obiettivi prioritari, in quantità industriali e secondo modalità
“scientifiche”!
Ma in cosa consiste il “gioco”
e la “giocosità”? Non credo si possano chiamare “gioco” le moltissime
attività che sono indicate con questo nome. Perché quelle attività hanno forse conservato
solo aspetti marginali del “giocare”
umano, a mio parere! Sono diventate, prevalentemente, come altre attività umane, soprattutto finalizzate
all’utile e al conveniente, a produrre o distribuire profitto. Sono
caricate di ansia di prestazione e di competizione. Spesso sono espressione di “status”
sociale o di desiderio di emergere. Per molti sono solo una “scorciatoia” per
il “successo”. Talora vengono loro attribuite anche funzioni salutiste o
finalità terapeutiche di vario genere; spesso sono un semplice modo per
“ingannare” il tempo, ecc.
Ma cosa è rimasto del “giocare” umano
in tutte queste modalità? Quegli obiettivi e quelle finalità non potrebbero altrettanto
bene essere raggiunti in altri modi? Il gioco sarebbe allora solo la strada più
breve o più piacevole per raggiungere i soliti scopi e gli obiettivi desiderati? Alla fine, “gioco”
sarebbe solo un “nome”?
In realtà occorrerebbe prendere
atto che quelle attività che, illudendo
noi stessi, ci affanniamo a moltiplicare e a presentare come “gioco”, hanno
perso l’anima, per così dire, o forse l’hanno venduta! Nelle attività comunemente indicate con questo
termine, manca proprio ciò che è più essenziale alla giocosità umana.
Manca quel supplemento di orizzonti
e di
senso che questa attitudine e questa attività umana, nel loro senso
originario, offrivano all’esperienza del
vivere.
Volete una controprova? Confrontate il gioco
degli adulti umani con il giocare dei
bambini. I bambini nell’età in cui non hanno ancora imparato a “fare gli adulti”, l’età in cui il loro esistere
non è ancora del tutto regolato sui “modelli” sociali prevalenti. L’età in cui
la spontaneità e la forza della vita impedisce ai loro genitori, e agli adulti
in genere, di determinare il senso, le modalità e i mezzi del divertirsi. Cosa si
scopre infatti?
Scopriamo una cosa che secoli fa Meister Eckhart aveva già detto, quando definiva il gioco, molto semplicemente, come la
capacità di “vivere senza un perché,
lavorare senza un perché, amare senza un perché”, in altre parole come l’esperienza
della gratuità dell’esistenza e la capacità quindi di “celebrare” ogni momento del nostro vivere. E, se è così, non servono mezzi speciali o
costosi o situazioni fuori
dall’ordinario.
Qualcosa del genere è rivelato da
alcune “pratiche” umane. Infatti
avrebbero senso e sarebbero possibili, senza il desiderio e la capacità di “celebrare la vita”, la poesia, la musica, la creatività,
ecc.? Cosa fa un poeta se non celebrare ogni aspetto della vita (dolce o amaro,
tragico o passionale, fragile o rigoglioso…), senza nessuna ragione,
giocando con le parole? E cosa fa un musicista
se non giocare con le note e gli accordi? E un pensatore, cosa fa se non giocare con le idee? C’è un perché in
queste pratiche umane? C’è un perché, se
riusciamo a considerarle, fuori delle
logiche del mercato, soltanto come il “celebrare” momenti e aspetti della
realtà, della natura, dell’esistenza? C’è un
perché nel gioco dei bambini se non
il piacere e il desiderio di vivere?
Ma non sarà che, sia il bisogno – così prepotente in noi
adulti - che ci venga suggerito o mostrato “come” giocare e “come” divertirci,
sia la nostra perdita del senso
originario del “giocare”, sono in realtà espressioni del venir meno del piacere e del desiderio di vivere?
3 commenti:
Se il significato autentico di "gioco" sta nela sua gratuità cioè nella possibilità di reinventare l'esistenza senza scopo immediato che non sia la scoperta di alterità (nemmeno volutamente cercata), non possiamo stupirci che, almeno nel nostro Occidente, si sappia giocare (etimologicamente) sempre meno e che gioco sia sinonimo di affari, scommesse lecite o illecite, ricerca della vittoria ad ogni costo, dipendenza fino alla rovina propria e dei familiari ecc. Del resto accade lo stesso con la dimensione dell'homo faber, che è riconosciuta non per la sua capacità di mettere gli uomini in relazione tra loro e con la storia, ma solo per la sua capacotà (da compravnedita) di produrre utili economici, incidenze sul PIL, accumuli di capitale ecc. Quando il mercato diventa metafora esclusiva dell'esistenza, quando il progresso si misura in termini di PIL e di consumi, non possiamo meravigliarci che il gioco finisca con l'assorbire la logica del mercato. E, come nel mercato prosperano anche forme illegali di arricchimento (del resto Ermes era il dio protettore sia dei mercanti che dei ladri!), così nel gioco-mercato sono possibili deviazioni e degenerazioni ch, a modo loro, mirano comunque al facile guadagno. Il problema è, cpme al solito, che fare per recuperare valore liberatorio a una dimensione (quella ludica) che contribuisce con le altre alla complessità dell'essere umano, senza cedere alla bostalgia di un mitico ritorno a una mitica età dell'oro e senza credere che una o più dimensioni dell'agire umano, solo perché "infettate" da un mercato senza regole, debbano essere "espulse" per riportare gli umni alla loro verità interiore.
“La Vita è gioco ! “
Leggendo questo post, subito mi sono ricordato di un pezzo teatrale del mio amato A. Moravia : “ La Vita è gioco !
Ecco ! L’intera Vita è degna di essere vissuta, solo se la s’intende come un gioco.
Perché ?
Perché, qualunque sia il suo svolgimento, l’esito finale è soltanto ed irrimediabilmente : La Morte !
Allora, qualunque “sotterfugio” per ingannarci che lo scopo della Vita è l’arricchimento, il potere, il piacere non fine a se stesso; ma quello “bacato” che si basa sulla sopraffazione (non per niente in napoletano esiste un espressione “molto cruda” ma che rende bene il senso: “comandare è meglio che f….; è meglio del più naturale dei piaceri.)
L’autore del Post ha centrato bene il problema sul “giocare” oggi.
Esso è diventato solo un’altra attività economica, purtroppo , molto, molto ben remunerata.
Secondo me, per ritrovare il “genuino” piacere del giocare, basterebbe rimettere in palio il semplice “prosciutto” di una volta , in tutte le gare e, per i giocatori, prevedere il solo “rimborso spese”.
Personalmente, non ho mai creduto nelle “pulizia” dello “sport” .
Dove ci sono in palio MILIARDI non si può giocare “liberi” dal “demone” denaro.
L’Uomo si diverte solo se non ha nulla da perdere !
Ma questo l’ha dimenticato.
Mario Rosario Celotto
Il gioco è relazione affettiva con il mondo alimentata dalla fantasia. Non c'è gioco senza immaginazione. Non a caso il poeta Aldo Palazzeschi, scrisse:
“...il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente!
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire...”
Sì, quando “l'anima è venduta”, il gioco è finito, o è “finto”. Il gioco vero, invece, “finge” nel piacere dell'incontro con le cose del mondo. Come quando dal terrazzo all'imbrunire si scorgono gli alberi stagliarsi sullo sfondo del cielo.
Anche stasera....
La cima del noce frondoso
scherza con l'aria, al tramonto.
Un verde riverbero freme
all'incontro col vuoto celeste.
Un frullo trascorre leggero
inseguito da alati compagni.
S'indora a occidente il celeste
e pallido ormai trascolora.
Lassù, oltre il ramo più alto
s'è accesa una soffice luna
che bianca nel cielo più azzurro
colloquia col verde...
nell'aria che imbruna
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